giovedì, novembre 02, 2006

NAPOLI CHE MUORE (1)


Napoli che agonizza in un letto di dolore circondata da militari.
Saviano ha descritto quest'agonia, e l'ha fatto bene perchè non è un reporter ma un bravo scrittore. Andatevelo a leggere, perchè ne vale la pena. E anzichè farvi trascinare dall'emozione, o dal punto di vista della sinistra in crisi, godetevi il suo stile narrativo. So che non è facile, perchè narra cose terribli,ma provateci lo stesso. O fate come vi pare.
Innanzi a questo libro certi episodi della mia vita che fino a ieri erano reali si sono trasformati in sogno.
Davvero non so più se li ho realmente vissuti.
A sedici anni, in un'epoca in cui le tute ricoprivano soltanto i metalmeccanici, passeggiavo per via Caracciolo indossandone una a quadretti bianchi e rossi che mi arrivava ai polpacci, un paio di zoccoli con tacchi a grattacielo,in testa un'enorme paglia multicolor con larga frangia, e al guinzaglio il barboncino nano bianco, reduce da un bagno in cui gli avevo applicato il cachet che usava mia nonna per riflessarsi i capelli. Con quel cane celeste e rassegnato procedevo sul marciapiede piena di stupore per tutte le macchine che si fermavano per rimorchiarmi. Oggi, che siamo ormai abituati all'orrore, non mi filerebbe più nessuno. Qualche volta mi avvicinavo al finestrino e chiedevo:
"Ne avete benzina?"
"Come no.C'è il serbatoio pieno."
"E allora camminate. Camminate."
Costava poco la benzina, ma la macchina non tutti se la potevano permettere.
E dava dei diritti che il mio vestiario incoraggiava. Il fatto è che ero molto stupida, e molto vergine.
Però quando poi andavo a Milano d'inverno e c'era il nevischio, le auto sfrecciavano nella fanghiglia, e senza pietà me la gettavano addosso, mi sentivo una povera disgraziata, una morta di fame del sud priva di identità. E quando salivo nella 500 di mio zio,"africa" mi gridavano e "lumumba", per via della targa. Io che non sapevo nulla di razzismo non li capivo, mi sembravano un po' fuori di testa. Avevo solo tanto freddo, dentro e fuori, e non vedevo l'ora di ritornare al sole. Poi, se viaggiavo col treno, dentro la stazione un portabagagli faceva uno strano verso, un po' volgare ma pieno di calore, aspirava l'aria attraverso i denti serrati, e mi gridava:
"Carnalità!"
Ed io sapevo d'essere tornata a casa.

1 commento:

Anonimo ha detto...

cara ueuè,fai proprio tenerezza,ma dove hai vissuto la tua vita,in un giardino d'infanzia? Scetate guagliò!